9.21.2005

Simon Wiesenthal, la scomparsa di un giusto

Memoria. Muore all'età di novantasei anni il ''cacciatore dei nazisti'' sopravvissuto al campo di sterminio di Mauthausen. Una vita dedicata alla giustizia, non alla vendetta

Stefano Rizzo

Simon Wiesenthal ha sicuramente mantenuto fede alle obbligazioni che si era dato da quando, liberato dal campo di sterminio di Mauthausen, decise di “cercare gli assassini di tutte le vittime, non solo le vittime ebree” di “battersi per la giustizia”. E ha continuato a farlo per tutta la vita fino a quando, nell’aprile del 2003, poté dichiarare: “sono sopravvissuto a tutti gli assassini. Se ce ne sono ancora, sono troppo vecchi o deboli per essere processati. Il mio lavoro è finito.”
Qualche mese dopo, nel dicembre del 2003, la compagna di tutta una vita, la bella Cyla dai capelli biondi, che grazie ad essi era riuscita a fuggire allo sterminio facendosi passare per cattolica polacca, lo aveva lasciato. Simon Wiesenthal le è sopravvissuto quasi due anni, ha continuato a scrivere e a lavorare, a raccontare la propria vita e a interrogarsi sul senso e sul valore della propria missione, come aveva fatto nel 1967 con il libro di memorie “Gli assassini in mezzo a noi”, nel1989 con “Giustizia e non vendetta” e da ultimo, nel 1998, con “Il girasole. I limiti del perdono”. Il 20 settembre è morto serenamente nel sonno nella sua casa di Vienna all’età di 96 anni, la morte di un giusto.
Era nato nel 1908 a Buczacz, una cittadina polacca dell’impero austroungarico, ora parte dell’Ucraina (dove ancora oggi i polacchi – non quelli ebrei perché sono stati tutti sterminati -- vengono perseguitati dal regime). Il padre era morto durante la prima guerra mondiale. Terminati gli studi secondari, il giovane Simon aveva cercato di iscriversi al politecnico di Lvov, ma era stato respinto perché ebreo. Allora era andato a studiare a Praga e, conseguita la laurea in ingegneria, era ritornato a Llov dove, nel 1936, si era sposato.
La vita felice della giovane coppia durò solo tre anni. Nel 1939 iniziò la tempesta di acciaio che spazzò tutta l’Europa per cinque anni e mezzo, provocando, oltre alle immani distruzioni materiali, decine di milioni di morti, centinaia di milioni di profughi, e realizzando l’orrore peggiore e senza precedenti nella pur sanguinosa e crudele storia dell’umanità: la Shoah, “la desolazione” (come fu in seguito chiamata), lo sterminio di sei milioni di ebrei.
All’inizio la morte per gli ebrei di Llov non venne dai tedeschi, ma dai russi entrati in città grazie al patto di non aggressione tra Unione sovietica e Germania. Il patrigno di Wiesenthal venne ucciso e così un suo fratellastro; lui stesso e la moglie, considerati “borghesi degenerati”, furono privati di tutto e solo corrompendo un funzionario della polizia segreta russa riuscirono a salvarsi dalla deportazione in Siberia.
Il peggio arrivò con il passaggio della città nelle mani dei tedeschi. Prima ancora di attuare la “soluzione finale”, lo sterminio sistematico di tutti gli ebrei europei, i tedeschi lo praticarono in Polonia e nei paesi baltici, spesso aiutati dalle autorità locali e dalla cittadinanza. Iniziò per Simon e Cyla il lungo viaggio nell’inferno dei campi di concentramento, dei campi di lavoro coatto e dei campi di sterminio. Lei riuscì ad evadere, ma fu ripresa (anche se non riconosciuta come ebrea) e inviata ai lavori forzati in Germania; lui, grazie alle sue conoscenze tecniche, fu recluso in un campo di lavoro che provvedeva alla manutenzione delle ferrovie polacche. Riuscì a fuggire, ma fu nuovamente catturato e questa volta inviato a Mauthausen, un campo di sterminio. All’arrivo degli americani, il 5 maggio del 1945, stremato insieme a pochi sopravvissuti in una fetida baracca, pesava 45 chili. Quando, molti mesi dopo, poté riunirsi alla moglie apprese che 89 dei loro parenti erano stati uccisi.
Dopo la fine della guerra lavorò con il governo militare americano con l’incarico di raccogliere dati e svolgere ricerche sui criminali nazisti per i processi di Norimberga che iniziarono nel novembre del 1945. All’inizio, anche dopo Norimberga, gli alleati si mostrarono intenzionati a perseguire i colpevoli, ma presto subentrò la ragion di stato della guerra fredda: né russi né americani erano più interessati a processare gli esponenti nazisti, militari e civili, molti dei quali occupavano di nuovo posizioni di influenza nelle due Germanie, sia ad ovest che ad est. Anche gli ebrei che erano sopravvissuti ai campi di sterminio cercavano di venire a patti con l’orrore subìto; molti di loro volevano dimenticare, metterselo alle spalle e iniziare una nuova vita.
Non così Wiesenthal. Con la scrupolosità e la tenacia che gli venivano dagli studi talmudici, con le capacità analitiche che gli venivano dagli studi di ingegneria, con la volontà di resistere che gli aveva consentito di sopravvivere nei campi di sterminio, costituì in due stanzette a Linz in Austria il Centro ebraico di documentazione e si mise immediatamente al lavoro.
Quello che è passato alla storia come “il cacciatore di nazisti” in realtà non si muoveva quasi mai dal suo piccolo ufficio ingombro di carte: lui faceva il lavoro analitico, ascoltava i testimoni, metteva insieme i brandelli di informazione più disparati, compilava i dossier. Sul “campo” ad indagare mandava uno dei tantissimi amici o collaboratori sparsi in tutto il mondo. Quando aveva identificato un criminale, aveva raccolto le prove della sua colpevolezza e scoperto dove si trovava, passava le informazioni alle autorità dei vari stati. Se queste, come spesso è successo, non intervenivano, si rivolgeva alla stampa, suscitava una campagna di indignazione e allora anche i governi riottosi erano costretti ad agire.
Nel corso degli anni, dopo che il centro di documentazione si trasferì a Vienna, furono centinaia i processi che Wiesenthal e i suoi pochi collaboratori aiutarono a istruire e i criminali che assicurarono alla giustizia. Da quello, famosissimo, di Adolf Eichmann, catturato nel 1959 in Argentina da agenti segreti israeliani, portato in Israele e qui processato e impiccato; alla cattura di Karl Silberbauer, l’ufficiale della Gestapo che aveva portato la piccola Anna Frank alla sua morte; alla cattura di Franz Stangl, il comandante di Treblinka; alla cattura a New York di una certa signora Hermine Ryan, che con il vero nome di Braunsteiner aveva ordinato il massacro di centinaia di bambini nel campo di Majdanek. E molti, molti altri ancora.
Nonostante la sua attività indefessa, per oltre 50 anni, non tutti e neppure la maggior parte dei circa 90.000 criminali di guerra nazisti sono stati catturati, e molti non sono stati neppure identificati. Le carte e le prove delle loro colpe sono state spesso distrutte o nascoste per decenni -- come è avvenuto in Italia -- negli armadi segreti di autorità compiacenti, che li hanno ignorati e forse soltanto ora, che molti dei colpevoli sono morti, hanno deciso di fare qualcosa.
Per il suo lavoro al servizio della giustizia Wiesenthal subì nel corso degli anni anche numerosi attentati da parte di neonazisti, e dovette anche assistere al riemergere di un antisemitismo, minoritario ma ugualmente pericoloso; ma non si lasciò mai trasportare dall’odio. Morendo ci ha lasciato un ultimo messaggio, che parla anche dei pericoli dell’oggi e del domani: “L’odio può essere allevato ovunque, l’idealismo può essere pervertito e diventare sadismo ovunque. Se l’odio e il sadismo si combinano con la tecnologia moderna l’inferno potrebbe scoppiare di nuovo ovunque.”

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