La sconfitta dei macellai
di Antonio Padellaro
Al termine dell’indimenticabile giornata del 7 luglio 2005, da conservare nell’album del terrore accanto all’11 settembre 2001, New York, e all’11 marzo 2004, Madrid, abbiamo l’assoluta certezza che i signori di Al Qaeda (o chi per loro) questa volta abbiano davvero perso su tutta la linea. Può sembrare paradossale affermarlo mentre sugli schermi televisivi passa l’ultima contabilità, ancora prudente, del sangue versato: decine di morti, mille feriti, paura e distruzione. Ma questi numeri e l’immenso dolore che hanno irradiato, insieme alla luce cattiva delle bombe, sono la sola, turpe soddisfazione che i macellai mandati da Al Zarqawi o da qualche altro degno compare possono portare all’incasso.
Volevano dilaniare i corpi per devastare le anime? Volevano trasformare i londinesi e il popolo britannico in una massa terrorizzata e implorante? Volevano gettare nel panico i testimoni globali di questa loro nuova impresa, costringerli ad abbracciare una vita di permanente, paurosa rassegnazione? Volevano obbligare i grandi della terra a rintanarsi nei loro bunker? A emanare rabbiosi e impotenti editti? A tormentare i loro concittadini con odiose limitazioni della libertà personale? Guardate le immagini e ascoltate la parole.
Osservate gli uomini e le donne emersi da un mondo sotterraneo di grida e disperazione. Sono a brandelli ma non urlano, non imprecano, non implorano. Descrivono il loro inferno con la calma di chi è pronto a ricominciare; a essere esattamente come era un secondo prima delle 8 e 49 del 7 luglio 2005. Guardate Tony Blair quando afferma non ci faremo intimidire, li batteremo. Sentitelo quando trova la forza di comunicare alla sua gente, e all’universo tutto, che chi compie attentati dice di farlo nel nome dell’Islam ma che la grande maggioranza dei musulmani in Gran Bretagna e altrove sono gente onesta. Pensate alla forza politica e umana di una simile dichiarazione, nel momento in cui qualunque leader di un paese con tale violenza colpito potrebbe lasciarsi andare ad espressioni di collera (e chi potrebbe biasimarlo per questo?). Ascoltate le reazioni del mondo. Non c’è più il marasma delle menti mentre le Twin Towers venivano giù; lo sbigottimento alla vista dei treni sventrati nella stazione di Atocha. È cambiato qualcosa e non solo per la dimensione gigantesca di quegli orrori rispetto a questi. Non sono, non siamo, più quelli che si interrogavano sgomenti sulla terribile esistenza che ci attendeva, sulle lacrime e il sangue che avremmo dovuto asciugare.
Probabilmente siamo tutti un po’ cambiati davanti al terrorismo. Non siamo peggiori né migliori. Non siamo neppure più forti o coraggiosi. Temiamo il peggio eppure ci sentiamo, questo sì, meno vulnerabili. Perché è come se, gradualmente, attentato dopo attentato ci stessimo abituando a convivere con la bestia. Una sorta di mutazione psicologica indotta dagli anticorpi che qualsiasi fenomeno, perfino il più spaventoso finisce alla lunga per generare. Accadeva più di mezzo secolo fa alle popolazioni civili che ogni volta riaffioravano, come morti viventi, dalle macerie delle città spianate dei bombardamenti, incendiate dal fosforo dei razzi. Accade oggi ai londinesi che riemergono dai tunnel dell’angoscia scrollandosi la polvere di dossor tamponandosi le ferite, e ricominciano.
Dovevano pensarci i mandanti di morte che alla fine ci si adatta a tutto, soprattutto nel mondo dell’informazione globale. Mostra un kamikaze che esplode a Bagdad e il mondo parlerà di te. Mostrane mille e nessuno ci farà più caso. Perciò il terrorismo, questo terrorismo ha cominciato a perdere, e perderà. A meno che i profeti del terrore non investano potere e finanze nel temuto salto di qualità: guerra batteriolgica, ordigni nucleari. È l’ultima frontiera che ci separa dalla definitivo avvento della barbarie. Perciò va presidiata dai governi con una strategia molto diversa da quella costosissima, dannosa, inefficace messa in campo dopo l’11 settembre. Oggi sappiamo che la guerra in Iraq non ha fatto procedere di un solo millimetro la lotta al terrorismo internazionale. Occorre uno sforzo molto maggiore nell’impegno e molto diverso negli strumenti. È una tragica lezione che i leader del G8 hanno sperimentato quasi di persona. Speriamo ne facciano l’uso migliore.
apadellaro@unita.it