10.13.2005

Studenti in piazza: in 20mila per diro no alla riforma Moratti


«Cancellare la riforma Moratti», «Un'altra scuola è possibile», «Sapere è difendersi»: tanti striscioni, colori e cori alla manifestazione contro la riforma Moratti e in difesa della scuola pubblica che si è svolta a Roma e in una cinquantina di città dal Nord al Sud italia (da Firenze a Foggia, da Messina a Torino, da Trieste a Barletta). Promotori della mobilitazione Unione degli Studenti, Studenti di sinistra e Rete sempre ribelli che sollecitano, tra l'altro, l'innalzamento dell'obbligo scolastico fino a 18 anni, una legge quadro nazionale per il diritto allo studio e politiche complessive sull'accesso ai saperi, una maggiore democrazia e partecipazione degli studenti nelle scuole. Insomma fermare il “riordino” della secondaria superiore ormai giunto in dirittura d'arrivo, all'indomani del parere favorevole della commissione Cultura della Camera e a pochi giorni dal termine per l'approvazione del decreto sulla secondaria superiore (la delega scade il 17 ottobre).

A Roma gli studenti delle scuole superiori laziali si sono radunati in Piazza della Repubblica (ventimila per gli organizzatori, qualche migliaia per la Polizia) e hanno dato vita ad una manifestazione allegra e colorata, al ritmo della musica dei 99 Posse e di Piero Pelù. «Siamo qui per chiedere l'abrogazione della Legge Moratti e più investimenti per la scuola pubblica. La scuola privata? Dovrebbe sostentarsi da sola» spiega Alessio, dell'Istituto Neumann.

Tra gli slogan molti risalgono agli anni sessanta «Se non cambierà lotta dura sarà», «Contro la scuola dei padroni, cento, mille occupazioni» mentre molti altri hanno preso di mira il ministro dell'Istruzione Moratti e il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, chiedendo l'immediato ritiro della riforma scolastica, definita dagli organizzatori «una riforma fascista che riporta l'Italia nel passato».

In una mattinata tranquilla, c'è stato qualche momento di tensione quando il corteo ha attraversato via Cavour, dove alcuni ragazzi hanno scritto si muri e porte di abitazioni con bombolette spray. Alla fine comunque gli organizzatori si sono detti soddisfatti: secondo Luigi, della sinistra giovanile, «Quest'anno la mobilitazione è riuscita molto meglio dell'anno scorso, e questa è solo la prima di un autunno che si preannuncia caldo». In una nota, l'Unione degli Studenti chiede all'opposizione di centrosinistra di impegnarsi per l'immediata cancellazione della riforma Moratti, per l'innalzamento dell'obbligo scolastico, per una seria politica di diritto allo studio e di valorizzazione della partecipazione nelle scuole.

Intanto continua anche la mobilitazione degli universitari che hanno occupato diverse facoltà a Roma.

http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&TOPIC_ID=45095

10.11.2005

«Un governo inetto, l'Italia merita di meglio»

Testo integrale del discorso tenuto da Romano Prodi a piazza del popolo domenica 9 ottobre

Amiche e Amici,

oggi non siamo qui per una manifestazione di parte o di propaganda. Siamo qui per testimoniare la nostra passione e il nostro amore per l’Italia. Un grande Paese, le cui speranze ed energie da quasi cinque anni sono umiliate da un governo e da una maggioranza che hanno promesso miracoli e prodotto disastri.

Un Presidente del Consiglio inadeguato e una maggioranza litigiosa stanno concludendo la loro esperienza. La loro incapacità è sotto gli occhi del mondo. Gli italiani sono stati umiliati nel loro amor di patria. Hanno visto un governatore della Banca d’Italia sfiduciati dal Presidente del Consiglio sedere a fianco di un ministro dell’Economia capace solo di dileggiarlo di fronte alla stampa mondiale.

Noi tutti siamo offesi da tanta inettitudine. Noi non meritiamo di essere governati così male. L’Italia e gli italiani meritano di meglio. Noi ci indigniamo di fronte a chi non ha il senso del dovere e del rispetto per i valori fondati della nostra Repubblica.

IN QUESTI CINQUE ANNI il nostro Paese ha perso competitività e credibilità internazionale. Ha visto calare sempre di più il tasso di crescita dell’economia, ormai giunta ai livelli più bassi dell’Union e Europea e di tutto il mondo sviluppato. Ha visto il potere di acquisto degli italiani ridursi drammaticamente fino a costringere milioni di famiglie a fare i conti con la difficoltà di arrivare a fine mese. Una famiglia su quattro del nostro Mezzogiorno vive in condizioni di povertà. I ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. È aumentata l’ingiustizia sociale. Si è frantumata la coesione. I più deboli sono stati emarginati e i furbi incoraggiati. Gli italiani sono stati spettatori dell’arroganza di un potere che non ha esitato a ricorrere a leggi ad personam per salvare dalla giustizia il Presidente del Consiglio e i suoi amici. Leggi talmente spudorate che persino chi ne ha curato la prima stesura oggi se ne vergogna e le disconosce: la legge Cirielli oggi si chiama «ex Cirielli». Molte attività economiche, molte imprese hanno chiuso. Il precariato è cresciuto, i giovani sono sempre più ridotti a vivere nell’incertezza e nella provvisorietà. È palpabile un senso di disagio, d’insicurezza, d’inquietudine e di paura per il presente e per il futuro. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, i giovani guardano con invidia i padri, nella convinzione che la loro vita sarà peggiore. Per la prima volta i genitori guardano con ansia i figli nel timore per il loro avvenire.

In questi cinque anni il paese e il mondo sono profondamente cambiati. Nuovi grandi problemi si sono affacciati sullo scenario internazionale. La globalizzazione con tutte le sue potenzialità ei suoi difetti è andata avanti. Il terrorismo internazionale si è scatenato in tutta la sua ferocia. L’insicurezza e la paura sono diventati una costante delle nostre società. La guerra, con le sue tragedie e le sue enormi contraddizioni, hanno segnato e segna profondamente lo stato dei rapporti internazionali.

L’UNIONE EUROPEA ha accolto dieci nuovi Paesi,spostando le sue frontiere fino ai confini del continente. La spinta all’allargamento è ancora fortissima, come le recenti decisioni di questi giorni dimostrano. La costruzione di una Europa più forte e coesa va avanti e non si arresterà solo perché si è momentaneamente fermato il processo di ratifica della nuova Costituzione. La moneta unica europea si è affermata e consolidata come una delle più forti valute del mondo. L’Euro ha messo i paesi finanziariamente più deboli al riparo dalle tempeste monetarie. E tra questi paesi deboli vi è purtroppo l’Italia. Grandi e popolose nazioni si sono affacciate sulla scena mondiale. Cina e India sono i nuovi giganti della competizione economica globale. Tutto il mondo intorno a noi cambia. Sofisticate tecnologie rimpiazzano vorticosamente le vecchie. Nuovi interrogativi ci inquietano. La scienza e la tecnica offrono maggiori risorse e opportunità, ma generano interrogativi sempre più complessi e interrogano ogni giorno di più la coscienza di tutti noi. Tutti siamo affascinati e intimoriti da un mondo sempre più interdipendente, sempre più visibilmente diventato piccola casa comune di tutto il genere umano. Le fonti energetiche tradizionali scarseggiano. L’ambiente è inquinato e devastato dall’incuria. Gli elementi naturali si scatenano con veemenza a testimonianza di un Pianeta violentato dai suoi abitanti. Una pianeta sfruttato senza lungimiranza e senza senso di responsabilità verso le generazioni future. Uomini e donne si spostano dalle aree povere del mondo a quelle più ricche, portando dentro di sé storie di dolore e di sofferenza. Essi offrono ai paesi in cui cercano una sorte migliore nuove opportunità ed esperienze, ma creano anche nuovi problemi e contraddizioni. Il mondo cambia, i popoli cambiano, l’umanità tutta vive un processo di trasformazione.

Di fronte a tutto questo questo, il nostro Paese è stato guidato per cinque interminabili anni da una maggioranza e da un leader incapaci di guardare ai grandi problemi dell’Italia e del mondo. La classe politica che ci ha governato è stata attenta solo a cambiare le leggi a proprio vantaggio, e a tenere insieme, con favori e regalie, un blocco sociale ed elettorale abbacinato da irrealistiche promesse di ricchezza e di abbondanza. Il Presidente del Consiglio ha scambiato la politica internazionale con un sistema di rapporti e relazioni strettamente personali, quasi che i capi di Stato e di governo fossero proprietari dei loro Paesi, com egli imprenditori lo sono delle loro imprese.

LA POLITICA ESTERA dell’Italia si è ridotta ad incontri conviviali nei ranches, nelle dacie, nelle sfarzose ville private fortificate con i nostri soldi.Il Paese è stato trascinato in una avventura militare non voluta e non sentita solo perché il nostro Presidente del Consiglio potesse essere invitato alla corte del mondo. Persino le tradizionali relazioni con gli alleati storici dell’Italia sono state ridotte a supina accettazione della supremazia e delle scelte degli alleati. Mai, mai nella sua storia recente l’Italia aveva così platealmente abdicato alla sua dignità di Paese capace di elaborare una propria e autonoma politica estera, coerente ma non schiacciata dalle alleanze e dalle relazioni internazionali in cui siamo inseriti. Mai il ruolo e il peso del nostro Paese nelle grandi organizzazioni internazionali in cui si difende quotidianamente la pace e la convivenza del mondo, è stato così ridotto e così marginale. E che dire del modo col quale sono stati affrontati i grandi mutamenti nel sistema economico mondiale e la crisi dell’economia italiana? Si è operato come se per rilanciare l’economia potessero bastare alcune grandi opere, in gran parte pianificate e finanziate nella precedente legislatura. Vedendo spesso, in queste opere, più l’occasione per tagliare qualche nastro davanti alle telecamere che un’opportunità per il paese.

HANNO SPRECATO tempo e soldi.

Le opere non sono state concluse. Spesso non sono state neppure iniziate. E nel frattempo abbiamo perso anni preziosi per mettere il Paese in grado di sfruttare la grande opportunità che il ritorno della Cina e dell’India sulla scena mondiale offrono ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Né meno irresponsabile e miope è stata l’azione di governo di fronte ai grandi mutamenti che la globalizzazione pone a tutti i Paesi del mondo. Il programma delle famose tre «i» sì è risolto in poche e sporadiche iniziative. La riforma della scuola e dell’Università è del tutto insufficiente a mettere le nuove generazioni ing rado di competere con il resto del mondo. Le famose tre «i» del contratto con gli italiani sono diventate l’emblema dell’irresponsabilità, dell’interesse, dell’incompetenza. Di fronte ai grandi temi della tecnologia e della scienza, della ricerca e delle nuove opportunità che la medicina e la biologia offrono agli uomini abbiamo visto la maggioranza compiere scelte puramente opportunistiche, spesso mutevoli, costantemente orientate a ricercare il consenso e l’appoggio elettorale. Non siamo mai stati presenti nelle grandi occasioni mondiali in cui si sono affrontati i temi della tutela dell’ambiente e della salute della terra.

Questo è il bilancio, sintetico e impietoso, di questi cinque anni.

UN BILANCIO DISASTROSO perché il Paese è stato addormentato, anestetizzato ed ingannato. Perché la politica stessa ha perso ruolo e capacità di guida e di governo, costretta come è stata a fronteggiare ogni giorno le fantasiose inventive e le indegne trovate di ci aveva di mira prima di tutto e soprattutto gli interessi personali propri e dei propri amici. Un bilancio disastroso perché tra vendette e compromessi di basso profilo sono stati logorati la fiducia nella giustizia, il senso della legalità, il senso della responsabilità individuale e collettiva del Paese.

Si è persa la memoria stessa dell’interesse generale come guida e faro di ogni maggioranza di governo capace di essere all’altezza dei propri compiti.

In questo contesto va in scena ora l’ultimo atto. Una legislatura al tramonto e una maggioranza parlamentare che sa di essere da tempo minoranza nel Paese stanno tentando in questi giorni l’ultimo affondo. Cinque anni di cattivo gusto stanno ora concludendosi nel dramma. Un ministro dell’Economia tornato senza alcuna spiegazione al posto da cui era stato cacciato due anni fa, ha presentato una legge finanziaria priva di contenuti reali e di interventi e misure strutturali. Una finanziaria che prevede solo tagli e vincoli per le amministrazioni locali, quelle più vicine ai cittadini e ai loro bisogni. Di fronte a un deficit che oggi marcia ben oltre il 5% e che deve essere ridotto entro due anni al 2,8% questa finanziaria prevede una manovra che per quest’anno si limiterà a ridurre il deficit del solo 0,8.

[b]NON SI POTREBBE [b]essere più irresponsabili. Questa è una finanziaria di chi sta scappando e sa che l’anno prossimo non dovrà essere lui ad affrontare i problemi del Paese. Problemi che proprio le inadempienze, le negligenze di oggi renderanno domani più difficili.

Ma questa non è solo una finanziaria irresponsabile. Essa è anche una finanziaria che continua a scaricare sulle fasce meno protette della popolazione tutti i costi della crisi del Paese. I tagli e i tetti di spesa che essa prevede per gli enti locali vanno a colpire i servizi ai cittadini e ciò determina una vera e propria perdita di protezione e di sostentamento per le fasce svantaggiate. Continua e persiste così quell’indegna impostazione che ha caratterizzato tutte le finanziarie del governo Berlusconi e che ha visto i trasferimenti agli enti territoriali diminuire nell’arco di cinque anni da 15,5 miliardi a soli 14 miliardi di euro. Tenendo conto dell’inflazione oltre tre miliardi di euro in meno. Tagli che sono stati pagati dalla gente in minori servizi e minore coesione sociale. Tagli che sono serviti sostanzialmente a finanziare quella debole e inutile riforma dell’Irpef fatta in questi anni. Riforma che ha regalato molto ai ricchi e niente ai poveri e che si è trasformata in una inaccettabile forma di trasferimento di ricchezza a chi più ha. Altro che solidarietà sociale. Altro che capacità di coesione e senso di responsabilità che inutilmente il nostro presidente Ciampi ricorda sempre come compito primo di chi governa.

QUESTA È UNA MAGGIORANZA classista che ha fatto una politica di classe. Una maggioranza di scontro che ha fatto una politica di scontro. Una maggioranza non omogenea e conflittuale al suo interno che ha costantemente scaricato sul Paese i costi delle sue divisioni.

È i questo quadro del resto che si inserisce la vicenda della sciagurata riforma costituzionale che va sotto il nome di «devolution». Di questa riforma, dei danni tragici che essa può procurare al Paese, dello scempio che essa compie a danno della nostra Costituzione, delle incoerenze tecniche che la caratterizzano tutti ormai sono consapevoli. La ricerca forsennata quanto impossibile di un equilibrio fra le diverse forze della coalizione ha portato a una architettura costituzionale assurda. Un’architettura in cui il presidente del Consiglio è onnipotente verso la Camera dei deputati ma impotente verso il Senato. Il Senato a sua volta non rappresenta né il popolo né i governi locali ma è tuttavia in grado di bloccare ogni iniziativa dello Stato. Il procedimento legislativo diventa una sorta di gioco dell’oca dai tempi interminabili. Il capo dello Stato è umiliato insieme a tutti gli altri organi di garanzia. Regioni ed autonomie locali si vedono dare e togliere competenze secondo un disegno tanto macchinoso quanto incomprensibile. Difficilmente dunque si potrebbe pensare a una riforma più dannosa, più contraddittoria, più lontana dagli interessi dei cittadini. E tuttavia questa riforma va avanti. La maggioranza intende approvarla in via definitiva.

SE COSÌ AVVERRÀ non resterà che riporre ogni speranza nell’inevitabile referendum nella certezza che il Paese saprà rispondere con un sonoro e corale no.

Ma perché si va avanti? È noto, lo sappiamo tutti. Si va avanti solo perché lo vuole la Lega che ne ha fatto la sua bandiera. Ma ditemi! È questo il Paese in cui vogliamo vivere? È questo il Paese che gli italiani si meritano? Io dico no, mille volte no. E con me lo dicono gli italiani che ormai da due anni, a ogni elezione, sconfiggono la Casa delle libertà e premiamo la nostra opposizione forte e coerente. Una maggioranza parlamentare responsabile e degna del suo ruolo in queste condizioni dovrebbe arrestarsi. Attendere. Rinviare alla prossima legislatura e al nuovo Parlamento ogni decisione su un tema così delicato. Ma non questa maggioranza. Non da questa maggioranza ci si può aspettare senso di responsabilità democratica. E infatti cose ancora più gravi sono oggi di fronte a noi. Questa maggioranza, ormai minoranze nel Paese, timorosa di perdere le prossime elezioni, sta per cambiare la legge elettorale. Per paura della sconfitta imminente essi hanno costruito per se stessi una legge che reintroduce il proporzionale e cerca così di limitare le perdite. Una legge che prevede liste bloccate, senza preferenze, con candidati decisi dai partiti e dunque con un Parlamento scelto di fatto da poche persone. Un sistema che prevede un premio di maggioranza troppo basso per garantire la governabilità e che non prevede l’elezione diretta del premier anche se la coalizione è caratterizzata dal fatto stesso di proporre un candidato primo ministro.

Una legge che incentiverà il ritorno alla partitocrazia, alla formazione di coalizioni pluripartitiche instabili e intrinsecamente conflittuali al loro interno. Così si fanno fare giganteschi passi indietro al Paese. Così si riporta il nostro orologio ai tempi della partitocrazia imperante, e della continua instabilità. Con il referendum del ’93, un referendum che ha il valore di un vero e proprio atto rifondativo del nostro sistema costituzionale, gli italiani scelsero un sistema elettorale fondato sul principio maggioritario.

UN SISTEMA che garantisse agli elettori di poter scegliere insieme il Parlamento e il governo, in un quadro di stabilità fondato su un chiaro patto di responsabilità stipulato con gli elettori sovrani. Proprio quello che ora, con questa riforma, si vuole togliere di mezzo. Così si tradisce la volontà stessa del popolo italiano. Con questa legge diminuiscono forse le dimensioni della sconfitta che l’attuale maggioranza subirà alle prossime elezioni. Qualcuno, abituato a fare sempre leggi ad personam, può persino pensare, come fa l’attuale presidente del Consiglio, che in questo modo si logora l’opposizione. Quello che è certo però è che con questa legge si fa del male agli italiani perché sarà ancora più difficile governare. Una maggioranza che ha fatto tanti guasti e tanti disastri dovrebbe sentire almeno la responsabilità di consentire a chi verrà dopo di porre rimedio a questi danni. Questa maggioranza sceglie invece ancora una volta il suo particolare interesse. Che il Paese diventi più ingovernabile, che gli italiani perdano una parte rilevante della loro sovranità di elettori, che le oligarchie tornino a farla da padroni: che importa?

IL BENE DEL PAESE è l’ultimo dei pensieri di chi ci sta governando. Per questo oggi abbiamo voluto essere qui così numerosi in questa piazza. Noi ci rivolgiamo al Paese e a tutti gli italiani per dire quello che sta accadendo. Perché tutti sappiano. Tutti possano giudicare. Tutti possano reagire.

No. Noi non ci rassegniamo. Non ci rassegneremo mai. Noi sappiamo che la maggioranza degli italiani è con noi. Crede in noi. Ha fiducia in noi. Noi siamo pienamente consapevoli della grande responsabilità che ci attende. Noi, tutti noi candidati alle primarie dell’Unione e tutti noi che saremo candidati alle prossime elezioni politiche, tutti i partiti dell’Unione, tutte le donne e gli uomini che sono con noi, che ci sostengono, che ci voteranno, tutti sappiamo che il Paese ha diritto di essere governato come merita. Come merita per le sue tradizioni e le sue potenzialità.

NOI OGGI VOGLIAMO lanciare un messaggio di fiducia e di speranza agli italiani. L’Italia è un grande Paese. La nostra economia può ricominciare a correre. Il nostro popolo è capace di grandi slanci e di grande volontà. Ciò di cui c’è bisogno è una classe politica e un governo all’altezza del compito. Una classe politica e un governo che sappiano risanare i conti, e credano nella giustizia e nell’equità, garantendo la coesione sociale e la partecipazione di tutti allo sforzo collettivo. Un governo capace di riallineare prezzi e salari, in grado di far pagare a tutte le tasse e di tassare di più le rendite finanziarie e di meno il lavoro. Un governo capace di combattere monopoli e corporazioni, rendite di posizione e parassitismi per liberare le forze sane dell’economia e del lavoro. Un governo attento alle generazioni future, e capace di dare fiducia e opportunità ai giovani. Un governo capace di sviluppare un forte politica a sostegno dell’Unione Europea e della pacifica coesistenza tra i popoli e le nazioni.

UN GOVERNO ATTENTO ai problemi delle nuove tecnologie e capace di promuovere un grande dibattito pubblico sui nuovi valori che ne devono guidare l’uso e le applicazioni. Un governo in grado di rispettare le specificità e le potenzialità di tutti ma capace anche di far rispettare le regole della convivenza civile e della legalità democratica. Un governo aperto all’accoglienza verso chi viene da fuori ma capace di imporre a tutti le regole della nostra società democratica. Un governo attento ai problemi della sicurezza interna e internazionale ma anche custode geloso delle libertà individuali e dei valori essenziali della nostra Costituzione e della nostra civiltà. Un governo attento ai bisogni reali delle famiglie perché sa che le famiglie sono l’elemento essenziale e fondamentale non solo per lo sviluppo della persona umana ma anche per la crescita della comunità.

NOI AIUTEREMO le famiglie a crescere i propri figli grazie a misure più serie di quelle, risibili, che sono state adottate in questa legislatura. Noi sappiamo che tutti i cittadini e le cittadine, senza differenze e disparità devono avere non solo eguali diritti ma anche eguali opportunità. Il nostro governo promuoverà in tutti i modi l’eguaglianza effettiva fra i generi. Noi abbiamo idee chiare e idee forti. Noi sappiamo quello che è necessario alla nostra gente. Noi abbiamo pensato, riflettuto e discusso. Abbiamo cercato sempre il confronto con i nostri concittadini e non ci stancheremo mai di chiedere a tutti di aiutarci a costruire insieme l’Italia, l’Europa e il mondo che vogliamo. Vogliamo affrontare e padroneggiare i problemi del nostro tempo con serenità, con competenza, con equanimità, con giustizia, con attenzione a tutti e a ciascuno. Noi abbiamo rispetto per il nostro Paese e per i nostri concittadini. Chiediamo perciò a tutti voi fiducia, aiuto, partecipazione. Vi chiediamo di votare alle nostre primarie per dare il vostro contributo a questa che, oltre ad essere una consultazione per scegliere il leader che ci guiderà alle elezioni, deve essere una grande occasione di incontro e di partecipazione.

IO COME TUTTI gli altri candidati alle primarie, sto vivendo una grande esperienza. Incontro ogni giorno tanta gente, di ogni età, di ogni regione, di ogni mestiere o attività. Da tutti ricevo molto, molto più di quello che posso dare loro. E ricambio il loro affetto con un messaggio di speranza e di fiducia. Lo stesso messaggio che oggi tutti insieme diamo a voi in questa meravigliosa piazza del Popolo. Voi date a tutti noi forza e determinazione per continuare la nostra battaglia. Una battaglia che dovrà essere la battaglia di tutti gli italiani. Dobbiamo ridare fiducia al Paese. Dobbiamo riappropriarci del nostro futuro. Noi insieme renderemo di nuovo forte l’Italia. Daremo ai nostri figli e alle generazioni che verranno quel futuro di democrazia, di pace, di progresso e di crescita che essi hanno il diritto di avere.

Lo possiamo fare perché:
- saremo fermi nell’etica;
- saremo coraggiosi nell’economia;
- saremo fedeli alla nostra Costituzione.

10.10.2005

«Il Mediterraneo non sia un abisso di inciviltà»

Intervista a: Predrag Matvejevic a cura di
Umberto De Giovannangeli


«Il muro di Melilla, le acque di Lampedusa. Un'umanità disperata bussa alle nostre porte e ad attenderla trova spesso, troppo spesso, Muri di ostilità; barriere non solo fisiche ma mentali. Il Mediterraneo non deve trasformarsi in un abisso di inciviltà. In gioco non è solo il futuro, la vita di milioni di esseri umani. In gioco ci sono anche i valori, i principi che hanno fondato la civiltà dell'Europa». La tragedia di Ceuta e Melilla, le vergogne di Lampedusa, il presente e il futuro del Mediterraneo, sono i temi al centro del nostro colloquio con l'intellettuale il cui percorso culturale e umano è stato quello di costruire «ponti» di dialogo tra identità, etniche e religiose, diverse e spesso violentemente contrapposte: Predrag Matvejevic.

Dalle enclave spagnole di Ceuta e Melilla continuano a giungere immagini strazianti. Qual è la sua impressione?
«La disperazione torna a riemergere dalle acque e dalla sponda Sud del Mediterraneo. Un Mediterraneo che è lacerato da tempo e più che un mare che unisce appare un mare ostile, che divide. Un mare in cui fa naufragio la tolleranza, in cui si disperde la solidarietà. Ci sono momenti in cui queste lacerazioni diventano più evidenti e tragiche. Ed è ciò che sta accadendo oggi. A Ceuta, a Melilla, ma anche a Otranto e a Lampedusa: così abbiamo potuto osservare gli albanesi che sbarcano sulle spiagge italiane, a Otranto, su gommoni che spesso si trasformano in bare collettive. Abbiamo osservato - qualcuno distrattamente altri indignandosi per questo scempio di vite umane e di diritti inalienabili - i loro viaggi e naufragi organizzati dalle mafie albanese, montenegrina, italiana. Noi in Italia sappiamo come Lampedusa e Pantelleria siano diventate il palcoscenico tragico della povera gente che veniva dalle sponde del Sud del Mediterraneo. Adesso lo “spettacolo” si ripete a Ceuta e Melilla. Un vecchio e nuovo teatro tragico. Il volto dei sopravvissuti, siano essi maghrebini o albanesi, eritrei o kosovari, appare a noi sempre eguale: il volto della sofferenza, di chi chiede conforto e trova spesso solo ostilità e umiliazioni inflittegli; lo sguardo perso nel vuoto di chi ha abbandonato l'inferno ma ha paura di venirne rigettato dentro. Ma è nostro dovere saper distinguere i vari aspetti e le diversità che connotano il fenomeno dell'immigrazione dalle sponde Sud del Mediterraneo...».

Quali sono queste differenze, professor Matvejevic?
«Dai Paesi del Maghreb, dall'Algeria, dalla Tunisia, dal Marocco, bussano alle nostre porte gente molto più giovane di noi e di molto più povera (non dimentichiamo che la sponda Nord del Mediterraneo è quella dei già invecchiati): a spingerli è soprattutto il miraggio del benessere economico che sembra loro lì, a portata di mano, a un "passo" da casa. Poi vi sono i più disperati ancora, quelli che provengono dall'interno dell'Africa che passano attraverso l'aridità del deserto e una povertà umiliante. Questa parte dell'immigrazione è la più disperata e la loro disperazione è pronta a tutto. Non hanno niente da perdere, il rischio non li spaventa. Sperano solo di salvarsi. Questa emergenza nell'emergenza non trova risposta adeguata nell'aiuto di singoli Paesi e di organismi sopranazionali. È un aiuto sempre scarso, insufficiente. E quando la disperazione irrompe nelle nostre case, attraverso immagini strazianti, ecco che qualcuno torna a evocare un "Piano Marshall europeo..».

Come valuta questa ipotesi?
«Molto bene se non fosse che resta, per l'appunto, una ipotesi. Suggestiva certamente ma colpevolmente irrealizzata. L'idea in sé mi sembra comunque migliore rispetto a tante altre che si sono dimostrate alla prova dei fatti insignificanti se non addirittura deleterie. Un “Piano Marshall” potrebbe aiutare l'Europa a uscire dalle proprie contraddizioni. E queste contraddizioni sono più numerose e ben più dolorose di quanto ritenevamo alcuni anni fa».

La sua biografia intellettuale, oltre che la sua esperienza personale, è quella di uno scrittore che ha cercato di costruire, a partire dall'”inferno” bosniaco, “ponti” di dialogo tra culture diverse. Per un “costruttore di ponti” cosa significa trovarsi di nuovo di fronte a Muri come quello preso d'assalto dai disperati di Cueta e Melilla?
«Abbiamo visto vari Muri, difficili, rischiosi che occorreva scavalcare per andare da una parte all'altra dell'Europa. Mi ricordo nel momento in cui scrivevo il mio “Breviario mediterraneo” delle vittime nell'Adriatico, persone che cercavano di passare da una sponda all'altra. Tutti ricordano il Muro di Berlino che spaccava una nazione unica. Questi Muri adesso si spostano e diventano abissi tra le sponde del Mediterraneo. Abissi dove da una parte regna la miseria, e dall'altra una relativa prosperità. Questo appare forse il più grande problema nei rapporti, nei conflitti fra le civiltà. Un conflitto che ha ben altre basi da quelle evocate da Hungtinton…».

E quali sono queste basi?
«Ciò che prende corpo a Melilla, che ritroviamo nella fuga disperata di una moltitudine di diseredati, ciò che connota il “conflitto di civiltà” non sono le differenze fra le culture e le civiltà. No, alla base di questo scontro c'è l'irrisolto conflitto fra la fame e il benessere; vecchio conflitto biblico che si trova di fronte alla nostra civiltà e al nostro umanesimo. Un conflitto che per essere se non risolto quanto meno contenuto, ha bisogno di giustizia, di cooperazione e non certo di muri o filo spinato».

10.09.2005

L'Unione in piazza: bus e treni da tutt'Italia

10.07.2005

Ciampi frena la nuova legge elettorale

Gli snodi potenzialmente viziati: la soglia di sbarramento, l'indicazione del premier, i criteri del premio di maggioranza
Dubbi di costituzionalità su tre punti. Il segretario Gifuni contatta Letta

Sono rimbalzati fino al Quirinale i dubbi espressi da diversi costituzionalisti sulla riforma elettorale messa in cantiere dal governo. E sono parsi tanto fondati che il segretario generale della presidenza, Gaetano Gifuni, ha preso contatto con il suo interlocutore di Palazzo Chigi, Gianni Letta, per segnalargli quelli che anche agli uffici tecnici del Colle paiono punti critici. Sospettabili di incostituzionalità.
Gli snodi della legge potenzialmente «viziati» sono tre:
1) la soglia di sbarramento al 2 o 4 per cento, che metterebbe fuori gioco Union Valdotaine e Sudtiroler Volkspartei, azzerando la rappresentanza di due Regioni, in spregio al diritto sancito dalla Carta di tutelare le minoranze linguistiche;
2) l'indicazione del nome del candidato premier sulla scheda di voto che, se accettabile con riserva nel sistema maggioritario, non lo è nel proporzionale, in quanto esproprierebbe il capo dello Stato della prerogativa di conferire lui l'incarico;
3) i criteri di assegnazione del premio di maggioranza al Senato, con il problema di come applicare le soglie di sbarramento.
Questi gli aspetti sotto speciale osservazione. Potrebbero essere sgombrati e resi costituzionalmente accettabili, come suggerisce il Quirinale, visto che i termini per emendare la legge scadono lunedì. Se non lo fossero, il governo corre il pericolo di vedersi negata la firma di ratifica di Ciampi e non avrebbe più tempo per correggere la riforma prima del voto. Ma pure la ex Cirielli, detta salva-Previti, è oggetto di un perplesso esame: sullo scrittoio del capo dello Stato c'è da mercoledì, oltre al dossier tecnico-giuridico preparato dai consiglieri del Colle, anche il rapporto della Cassazione che illustra gli allarmanti effetti di quella legge.
Per quanto riguarda invece la devolution, al Quirinale si nega che si sia mai studiata l'ipotesi di un messaggio alle Camere. Poi, trattandosi di una riforma costituzionale per la quale è già stato annunciato un referendum, il problema della controfirma del presidente non si pone. Senza contare che, se intervenisse, Ciampi di fatto si schiererebbe con uno dei due fronti in conflitto.
M. Br.
07 ottobre 2005
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2005/10_Ottobre/07/ciampi.shtml

10.06.2005

Regalone alla Chiesa, il Senato approva: non pagherà più l'Ici

Si avvicina a grandi passi il “condono elettorale” del governo Berlusconi alla Chiesa. Il Senato ha detto sì all’esenzione dal pagamento dell’Ici per tutte le attività commerciali di proprietà ecclesiastica. Se il provvedimento sarà approvato anche dalla Camera, scuole private, ristoranti e ostelli non solo non dovranno più pagare la tassa comunale ma si vedranno restituire dai Comuni tutte le quote Ici versate dal 1993. Il condono ecclesiastico all’Ici infatti altro non è che una norma interpretativa (contenuta in un comma all'articolo 6 del Dl infrastrutture) di una precedente norma, per cui, come ha sottolineato in aula il diessino Morando, «deve essere riferita al passato, quindi dal 1993 ad oggi».

Il regalo alla Chiesa fatto dalla maggioranza mirando ai voti dei cattolici peserà ancora una volta sui Comuni già duramente colpiti dai tagli della Finanziaria 2006 di Tremonti. Per rendersi conto del peso economico di questo condono basta considerare quanto costerà al Comune di Roma: 5 milioni di euro in meno l'anno e, dovendo restituire le ici degli ultimi 13 anni, una scopertura di bilancio di 300 milioni di euro. Insomma, come ha sintetizzato Lanfranco Turci, capogruppo Ds in Commissione finanze, «una norma che si spiega solo nell'ottica dello scambio di favori tra la Cdl e la gerarchia cattolica, alla luce anche di quello che è successo nel corso della campagna referendaria sulla fecondazione assistita».

Durissimo l'attacco del presidente dei senatori diessini, Gavino Angius: «È un altro dei regali che la Cdl ha fatto in questi anni alla Cei, il cui impegno si segnala, anche stavolta, non solo in quanto volto alla salvezza delle anime ma anche ad affari economici, bancari e immobiliari molto terreni». Secondo Angius, si può ormai parlare di una vera e propria «questione vaticana» che investe «la salvaguardia di principi di libertà, di coesione sociale, di laicità dello stato che stanno a fondamento della democrazia e dell'unità del nostro paese». Infine Roberto Biscardini, dello Sdi, sottolinea come la norma porrà «problemi di carattere anche costituzionale» dato che «non sono messe sullo stesso piano le diverse confessioni religiose ma, soprattutto, non si pongono di fronte al fisco in condizioni di parità né i cittadini, né le imprese».

Il comma, votato al Senato, scatena dunque le ire dell'opposizione ma anche la protesta di qualche senatore della maggioranza, come il forzista (e valdese) Lucio Malan che aveva proposto di estendere questo privilegio anche ai beni di altre confessioni religiose, e il cui emendamento è stato invece bocciato, ufficialmente per mancanza di copertura, come ha detto in aula il presidente della Commissione bilancio, Azzollini.

Malan non è l’unico comunque all’interno della maggioranza a sollevare perplessità sull’esenzione Ici per la Chiesa cattolica. «Sono a berlino e non conoscevo questa norma. però- afferma l’azzurro Domenico Contestabile, presidente della Commissione difesa del Senato- così com'è mi pare inopportuna perché mi sembra una posizione di favore nei confronti della chiesa cattolica».

da l'unita.it

«Dopo il sì a Ankara la Ue non è più un fortino cristiano»

Intervista a cura di Toni Fontana a Emma Bonino

«Avviando il negoziato con la Turchia, l’Europa dimostra di essere un partner forte e credibile. Dialogare con Ankara significa mandare un segnale a 20 milioni di musulmani che vivono nei nostri paesi. L’Europa che non deve trasformarsi in una cittadella cattolica, ma perseguire con forza il suo progetto politico». E il giudizio di Emma Bonino, ieri a Casablanca, sull’avvio della trattativa per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

L’altra sera, quando a Rabat ha appreso la notizia dell’avvio del negoziato ha alzato la mano in segno di vittoria. Lei è stata tra i primi a sollevare la «questione turca» in Europa…
«Sì, vi sono mille motivi per farlo. La strada sarà certamente lunga, ma imboccarla farà bene all’Europa che, per prima cosa, compiendo questo passo, dimostra di essere una forza politica, un partner credibile che mantiene la parola data. Si apre ora un percorso che non sarà né facile, né scontato. Si è tuttavia si è finalmente vista un “Europa politica”, quella che, assieme a tanti, continuo a sognare. I negoziati richiederanno certamente molto tempo, ma discutere con la Turchia vuol dire anche dialogare con 20 milioni di musulmani che vivono in Europa».

Lei sostiene anche che l’avvicinamento della Turchia all’Europa comporterà vantaggio economici. Quali prove può portare per sostenere questa tesi?
«Se la Turchia va avanti così e la crescita economica procede allo stesso ritmo degli ultimi cinque-sei anni, cioè con percentuali del 7-8%, tra qualche tempo vedremo europei che traslocano ad Ankara e non il contrario. La vicenda turca rappresenta anzi una cartina di tornasole della crisi europea. La paura dei turchi non è tanto determinata da ragioni culturali, ma dall’aumento della disoccupazione in paesi come la Germania che, come la Francia, l’Austria ed altri, teme l’invasione di manodopera a basso costo. Quando i francesi dovevano votare al referendum sulla Costituzione è stato agitato lo spauracchio dell’”operaio polacco” che però nessuno ha finora visto. Se invece l’economia avesse goduto di buona salute l’esito della consultazione sarebbe stato diverso. Va poi ricordato che anche con l’allargamento ai 10 paesi europei è prevista la libera circolazione dei prodotti, ma è stata inserita la clausola dei 7 anni sulla circolazione delle persone».

La Turchia è un paese non arabo, ma musulmano. Quali potrebbero essere le ricadute di un eventuale ingresso di Ankara nelle relazioni tra Europa e l’Islam?
«Avviando il negoziato si afferma l’immagine di un Europa che non è una cittadella cattolica. L’Europa dimostra di rappresentare prima di tutto un progetto politico e non religioso. Ciò può aprire importanti canali di dialogo e di fiducia».

Qui in Marocco lei ha presieduto una conferenza internazionale sul pluralismo politico ed i processi elettorali che ha richiamato intellettuali e dirigenti in special modo dell’area mediterranea. Mentre a Rabat si discuteva di dialogo, a Bali si facevano esplodere i kamikaze..
«Sono appena tornata dall’Afghanistan ed ho la netta impressione che l’attrazione per Bin Laden o per la teocrazia iraniana o sudanese stia scemando. I musulmani che hanno accettato il nostro invito e sono venuti qui a Rabat, dalla Turchia o dall’Iraq o dalla Siria, rappresentano appunto un’alternativa e noi dobbiamo decidere quali sono i nostri amici e soprattutto sostenere una politica che favorisca i processi democratici in atto. Le conferenze sono certamente anche noiose e fanno purtroppo meno notizia degli attentati».

Qual è il messaggio reale e soprattutto concreto che giunge da questa iniziativa?
«In Europa ci torturiamo sulla questione se l’Islam è compatibile con la democrazia oppure no. Qui, a pochissima distanza dal nostro mondo, abbiamo riunito centinaia di esponenti del mondo arabo che, con convinzione o con molta fatica, si esprimono per l’ampliamento degli spazi di democrazia. Ciò rappresenta un risultato di rilievo. Si è discusso su come devono essere i partiti politici, il processo elettorale. Uno dei punti sui quali il confronto è stato più animato è stato il finanziamento pubblico dei partiti. C’è una realtà che “bolle” , sono stati fatti passi in avanti e molti, in Europa, non se ne sono accorti. Nella riunione promossa dal G8 che si terrà il mese prossimo in Bahrein è prevista la partecipazione ad una sessione delle Ong. Ciò rappresenta una novità che, con molta fatica, si sta affermando. Nel complesso tuttavia anche in paesi che si sono mossi con determinazione come il Marocco, la scommessa è ancora tutta da giocare».

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