1.30.2007

Piccoli gesti che salvano l'ambiente e la Terra



Non chiedere cosa può fare il mondo per salvare il Pianeta,
chiediti cosa puoi fare TU per salvare la Terra dalle prossime catastrofi ambientali che si annunciano se non si agisce subito. Parafrasando una famosa frase del presidente Kennedy, ci si domanda: quali sono i piccoli gesti quotidiani che non costano fatica ma che, sommati ad altri milioni di piccoli gesti, possono contribuire a inquinare di meno, a risparmiare energia, a migliorare l'ambiente, a non incrementare il riscaldamento globale e a risparmiare risorse per le generazioni future?
Non basta, infatti, (non basta più) non buttare la carta per terra, non lasciare rifiuti ai lati delle strade per sentirsi la coscienza a posto, utilizzare i mezzi di trasporto pubblici rispetto a quelli privati. Questo ormai è solo questione di educazione, mentre l'aumento delle temperature medie, lo scioglimento dei ghiacciai, l'innalzamento dei mari, la scomparsa delle barriere coralline richiede ben altro: soprattutto un diverso modello di vita e l'impegno quotidiano di ognuno, fatto anche di piccole cose.
Le temperature annuali globali

Si va delle azioni che sembrano banali, ma non lo sono
se si sommano a tutti gli altri, come spegnere il televisore e gli altri apprecchi elettrici e non lasciarli tutta la notte (o per giorni) in «stand-by», cioè con la lucetta rossa accesa. Sembra una piccola cosa, ma se lo facessero tutti si risparmierebbero migliaia di kiloWatt, risparmio che si traduce in migliaia di tonnellate di petrolio non bruciate per produrre energia elettrica utlizzata per nulla. I produttori di telecomandi, inoltre, potrebbero togliere il tasto stand-by (per non indurre in
Lampada a fluorescenza
a
tentazione...). Sarebbe meglio sostituire le lampadine a incandescenza con le nuove lampade a fluorescenza: consumano molto meno, circa il 75% in meno e durano di più (senza contare che è meglio spegnere le luci se si prevede di non tornare in quella stanza nei successivi cinque minuti). Acquistando un nuovo elettrodomestico, preferire quelli a risparmio energetico (ora sono indicati in modo chiaro): costano un po' di più, ma nel tempo si ripagano ampiamente con i minori consumi. Senza contare inoltre che l'utilizzo degli elettrodomestici in modo più razionale consente un notevole risparmio di energia.

Ma non è solo l'energia che è opportuno risparmiare. Anche l'acqua sta diventando un bene prezioso, e costoso. Fare un doccia, per esempio, significa consumare circa 50 litri d'acqua. Un bagno in una vasca, invece, ne consuma più del doppio. Migliaia di litri vengono persi ogni anno dai rubinetti che gocciolano o perché non sono chiusi bene.

Isolamento termico: attenzione poi agli spifferi da porte e finestre. Il freddo che entra (o il caldo in estate) costringe a riscaldare di più (o aumentare l'aria condizionata in estate) con un importante incremento nel consumo di energia.

Tenendo sempre conto della fondamentale importanza della raccolta differenziata dei rifiuti (il cui però il funzionamento non dipende dal cittadino, ma dalle amministrazioni pubbliche), un aspetto poco considerato ma che sta assumendo una dimensione consistente è l'alimentazione. Non è solo una questione di obesità, e quindi di salute e di spesa sanitaria, ma i modelli alimentari influenzano l'emissione di gas serra, la deforestazione e il riscaldamento globale. L'aumento del consumo
I bovini producono il 23% del metano immesso nell'atmosfera

di carne di manzo rispetto al passato ha moltiplicato gli allevamenti. Recenti studi hanno dimostrato che i bovini sono responsabili del 23% delle emissioni di metano, un gas serra molto più efficiente dell'anidride carbonica per il riscaldamento terrestre. Inoltre l'aumento dei capi di bestiame per carne ha fatto aumentare le coltivazioni di soia e mais destinate alla loro alimentazione, piante che hanno bisgono di molta acqua, senza contare la deforestazione (specie in Amazonia) per far spazio alle culture e ai capi di bestiame che alimentano l'industria dell'hamburger. Secondo l'Istituto francese dell'ambiente per produrre un chilo di carne di vitello si immettono nell'ambiente oltre 45 kg equivalenti di anidride carbonica, un chilo di carne di agnello equivale a 14 kg di CO2, un chilo di carne di pollo da allevamento ad appena 2 kg di CO2. Percorrendo 100 km in auto si immettono nell'ambiente 22 kg equivalenti di anidride carbonica.
Nessuno chiede di diventare vegetariani e di abbandonare la carne, ma quando si sta per addentare un filetto pensiamo un po' anche all'ambiente.
Paolo Virtuani

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1.19.2007

Echoes from the boot-heel of Italy

Echoes from the boot-heel of Italy
Aramiré revives old-world folk sounds at Zankel
BY JUSTIN DAVIDSON
www.newsday.com

January 18, 2007

The photographs date back a generation or two, but the frenzied rituals they document emerge from distant centuries. It's summertime at the tip of Italy's impoverished boot-heel and a woman is splayed out on the ground, surrounded by placid villagers who wait for a rescue team of musicians. She is a tarantata, the victim of a spiritual poison that has thrown her into a trance.

Brought on by a mythic spider bite or just by rural tradition, her fit can be cured by a visit to the church of San Paolo in Galatina on the saint's feast day of June 29 - that, and the intense administration of music. When the band arrives, she will start to writhe, still supine, creating her private choreography to a dance known as the pizzica. Eventually, she will rise to her feet. Her frenzy will increase, and though the music may go on for days, she will eventually return to consciousness and to the ordinary life of a peasant - at least, until the same time the following year.

The phenomenon of tarantismo died out in the 1970s, and few in Italy's deep-southern area of Salento mourn it. Certainly not Roberto Raheli, who has made it his life's work to preserve and perpetuate the region's folk music, and whose ensemble Aramiré performs at Zankel Hall tomorrow night. The music, he explains, was linked to those quasi-epileptic episodes, but not limited by them. His repertoire is one of wedding dances and songs about labor, love and protest.

The Salento of the 21st century bears little resemblance to the bleached, medieval land that nourished tarantismo. Today this southernmost part of the region of Puglia is known for its olive oil, its velvety wines, its farms spiffed up as tourist accommodations - and its infectious music. "La notte della taranta," an annual festival of folk and folk-tinged music in the town of Melpignano, draws 100,000 people.

To Raheli, though, the Salento has been a victim of its own success, and the festival is an abomination. Uncontrolled development and environmental depredations go hand in hand with the pollution of the region's music, which is now most often peddled in the form of a pop pizzica and cotton-candy tarantellas. The tax money lavished on such spurious bacchanals would be better spent on research and preservation.

"The old people have their own way of playing and singing, and that's been abandoned," Raheli says. "We're losing the music's richness."

The 46-year-old singer, composer and musical archaeologist spent years gathering vintage recordings and scouring the countryside for octogenarian musicians. He invited himself into their kitchens for singing sessions and tried to acquire their slightly serrated harmonies and the timbre of their throaty hollering. He had to leap a barrier of decades during which this artisanal music had been set aside along with the hand-turned coffee roasters and wooden yokes.

"I do remember the women singing in the fields when I was a child, but I'd be lying if I said that's where I learned this music," Raheli said. "I learned it later, and it took a lot of work."

Raheli belongs to a generation of southern Italian musicians who have tried to recapture the culture of an agrarian past without harboring any nostalgia for its privations. The music he adores can be thistly and hard, like the earth his forebears plowed. Ernesto De'Martino, an anthropologist who arrived in Salento in the 1950s, declared the taranta a ritualized protest against the frustrations of peasant life.

Raheli, who founded Aramiré in 1989, is something of a purist when it comes to the sounds and techniques of his homeland's folk music, but he is hardly an antiquarian. In "Mazzate pesanti" ("Heavy Blows"), the latest CD from Aramiré, the antique sounds of tambourine, accordion and raucous polyphony are put to the service of contemporary complaints: nuclear waste, poisonous fumes from coal-burning power plants, myopic politicians.

"What's important is to take ownership of traditional techniques in order to compose new music," he says. "The old songs comment on the exploitation of peasants, they talk about social conditions. We want to honor that legacy but address our own time."

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1.09.2007

Tirana è al buio!


Crisi energetica senza precedenti in Albania. Il Paese dipende per il 90 per cento dalle centrali idroelettriche ma il protrarsi della siccità e le carenze nella rete di distribuzione regionale (insieme al sensibile incremento dei prezzi sul mercato internazionale) che ostacolano anche l'importazione di energia, hanno costretto il governo a imporre il razionamento. Fino a 15 ore al giorno senza elettricità.

Si aggrava la crisi energetica che da settimane attanaglia l’Albania. Il protrarsi della siccità e le carenze nella rete di distribuzione regionale (insieme al sensibile incremento dei prezzi sul mercato internazionale) che ostacolano anche l’importazione di energia elettrica, stanno costringendo il paese a vivere uno dei suoi inverni più difficili.
Il razionamento nella fornitura deciso dall’ente elettrico nazionale (Kesh) raggiunge le otto ore al giorno in alcune zone della stessa capitale e arriva fino a 15 ore nei comuni più piccoli.
«Noi ci assumiamo la responsabilità morale e politica per non aver potuto mantenere la promessa di un inverno con razionamenti minimi – ha ammesso il ministro dell’energia Genc Ruli – ma le misure adottate si sono rivelate insufficienti a causa di una crisi di carattere regionale, e di una siccità che si protrae oltre il previsto».
La produzione energetica albanese continua ad essere legata per il 90 per cento alle centrali idroelettriche. La più grande del Paese, quella di Fierze (nel nord) rischia fra pochi giorni di dover essere spenta poichè il livello di acqua nel bacino, che scende costantemente, sta per raggiungere il cosiddetto «punto di morte». Lo stesso allarme è scattato in altre due centrali sul fiume Mat.
A fronte di un fabbisogno interno di oltre 22 milioni di kilowatt/ora al giorno, la produzione interna non supera i 12 milioni mentre le importazioni sono ferme a 6. Tuttora sganciata dalle grandi reti elettriche europee, l’Albania può importare energia solo attraverso gli elettrodotti regionali che spesso però sono già utilizzati dagli altri paesi e quindi non impiegabili. In questo momento ad esempio, ha spiegato la direzione della Kesh, l’Albania può importare energia solo tramite le linee di collegamento con la Grecia, il che non basta a soddisfare le esigenze interne. Il ministro Ruli ha inoltre ammesso che le aziende che nei mesi scorsi avevano sottoscritto contratti di fornitura con l’Albania, sono venute meno ai loro impegni perché nel frattempo il pezzo di vendita dell’energia sul mercato è quasi raddoppiato.
Il risultato del drastico razionamento energetico sono gli enormi disagi che la popolazione è costretta anche quest’anno ad affrontare. Bar e negozi, almeno quelli che se lo possono permettere, utilizzano piccoli e rumorosi generatori elettrici installati sui marciapiedi davanti all’ingresso, mentre i problemi più grossi si vivono nelle abitazioni che insieme alla luce sono prive per molte ore al giorno anche di acqua e riscaldamento.
Fabbriche e aziende nella maggior parte dei casi si sono munite di potenti generatori che però aumentano enormemente i costi di produzione. In quanto a scuole e ospedali i razionamenti sono più contenuti ma in molti casi anche qui inevitabili.

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1.01.2007

Mai più patiboli. Per nessun motivo

L'impiccagione di Saddam Hussein chiude in modo orribile una vicenda che fin all'ultimo istante avevamo sperato potesse avere una fine diversa. Orribile, abbiamo detto, non soltanto perché così da tempo ci appare ogni esecuzione di condanna a morte, ma anche per il fatto in sé che inchioda la tragica avventura della guerra irachena a un episodio lugubre destinato a pesare sulle coscienze di tutti. Di tutti sì, persino su quelle di chi nel 2003 si dissociò senza indugi dal conflitto mesopotamico.
Non ci è sfuggita nei giorni scorsi una curiosa esitazione da parte di studiosi vicini all'amministrazione Bush, quali Daniel Pipes, Paul Berman, Peter Galbraith, che pure hanno giudicato eticamente legittima l'uccisione del dittatore di Bagdad. I tre hanno giustificato la decisione di far salire quell'uomo sul patibolo; ma si sono poi sentiti in dovere di aggiungere che il processo è stato contrassegnato da «una procedura affrettata e incompleta» (Pipes); che stavolta l'«uccisione del re», a differenza di quelle nel 1649 di Carlo I d'Inghilterra e nel 1793 di Luigi XVI in Francia, «non risolve nulla dal momento che in Iraq non è sorto un nuovo stato in sostituzione del precedente»; che non si può dimenticare che «noi americani eravamo alleati di Saddam mentre lui uccideva con i gas i suoi concittadini a decine di migliaia, sicché non dico che siamo complici ma siamo colpevoli di aver fatto finta di non vedere» (Galbraith); che adesso c'è il pericolo che «per gli insorti Saddam diventi un martire» e che «il conflitto fratricida tra sunniti e sciiti si ingigantisca e renda ingovernabile l'Iraq» (Pipes).
Altri hanno sottolineato la stravaganza della condanna a morte di Saddam per la strage di 148 sciiti nel 1982 a Dujail (fu la rappresaglia per un attacco al convoglio presidenziale) dal momento che ora il tiranno non potrà essere sottoposto a processo per reati incommensurabilmente più gravi consumati negli anni Ottanta quali l'uccisione di decine di migliaia di curdi e l'uso di armi chimiche nella guerra all'Iran. Altri ancora hanno messo in risalto come, a dispetto del fatto che il tribunale sia stato composto da iracheni, in terra irachena e abbia giudicato in obbedienza alle (attuali) leggi irachene, si sia trattato pur sempre di una giustizia dei vincitori a danno di un vinto.
Ma a noi sembra che tutte queste considerazioni — condivise da chi in un modo o nell'altro ha giustificato l'esecuzione e da chi invece quella messa a morte l'ha condannata e nella misura del possibile contrastata — colgano solo una parte della questione. Questione che va ricondotta a un punto di principio: non è, non può essere ammissibile che un tal genere di processi possa svolgersi in situazioni in cui sia anche solo contemplata la pena di morte. Il problema si pose già alla fine della Prima guerra mondiale quando, nel 1919, uno specifico articolo del trattato di Versailles impegnò i vincitori a trascinare alla sbarra Guglielmo II quale responsabile del conflitto (ma l'Olanda rifiutò di consegnare l'imperatore e il caso fu così risolto). E si ripropose a conclusione della Seconda guerra mondiale con i processi ai «vinti» che si tennero a Norimberga e a Tokyo.
In entrambi i casi, pur dopo dibattimenti che avevano offerto agli imputati maggiori garanzie di quelle riservate oggi a Saddam, si ebbero sentenze che non hanno mai smesso di provocare tormenti. In Germania già il dibattimento fu parzialmente minato nella sua credibilità per il fatto che evitò, a dispetto delle evidenze, di discutere il coinvolgimento di una potenza vincitrice, l'Urss, nell'aggressione alla Polonia, episodio da cui (nel settembre del '39) aveva avuto inizio la guerra; e alla fine capitò curiosamente che ebbero una pena relativamente lieve Baldur von Schirach e Albert Speer di cui era palese il coinvolgimento con i crimini hitleriani e fu invecemandato a morte (assieme a una decina di alti gerarchi nazisti) Julius Streicher, direttore di una rivista antisemita,
Der Stürmer colpevole d'un reato, per quanto odioso, «d'opinione». In Giappone una corte che (a differenza del tribunale di Norimberga formato dopo una complessa negoziazione tra le potenze vincitrici) era stata designata personalmente dal generale MacArthur, decise l'impiccagione del ministro degli Esteri Hirota Koki, di quello della Guerra Itagaki Seishiro e di altri cinque alti ufficiali ma, con motivazioni tutte politiche, lasciò in vita (e sul trono) l'imperatore Hirohito con il principe Asaka. Talché anche i contemporanei furono assaliti dal dubbio. Piero Calamandrei, che pure aveva giustificato il processo di Norimberga, in un celebre articolo sul Ponte domandò «perché gli imputati si sono trovati solo tra i vinti? e perché i giudici soltanto tra i vincitori?» Oggi l'elaborazione di problemi che, come abbiamo visto, sono stati dibattuti per tutto il secolo scorso ci porta a dire che un despota, per quanto gravi siano stati i suoi crimini, o viene ucciso al momento della sconfitta e della sua cattura oppure «deve» restare in vita. Sia processato e condannato a una pena detentiva, o all'esilio, ma mai sia consegnato a Corti che abbiano la facoltà di mandarlo al capestro. Il nostro sistema morale può tollerare un'uccisione a caldo con modalità che sappiamo non verranno mai accertate, ma non può più permettere lo stravolgimento di forme giuridiche per via di un esito che sempre e comunque apparirà scontato in partenza.
La morte di Saddam potrà essere utile solo in un modo: se soprattutto nell'Occidente provocherà un'ondata di riprovazione tale da convincere la comunità internazionale a non consentire che un episodio del genere possa ripetersi. Mai più. In nessuna circostanza. Per nessun motivo.

Paolo Mieli - Corriere della Sera
31 dicembre 2006

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